Meditazione di Mons. Stefano Manetti alla Giornata del giubileo sacerdotale
della Regione ecclesiastica ligure al Santuario N. S. della Guardia venerdì 3 ottobre 2025
Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la Parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret,
vide due barche accostate alla sponda.
I pescatori erano scesi e lavavano le reti.
Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra.
Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca».
Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».
Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano.
Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli.
Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore».
Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci (koinwnoi) di Simone.
Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
(Lc 5,1-1)
Gesù è circondato da una folla che gli fa ressa per ascoltare la Parola di Dio.
Non fanno parte del gruppo coloro che saranno i servitori della Parola, missionari nel mondo. Sono troppo stanchi, forse, dopo una notte di pesca, e comunque molto presi dal lavoro (lavavano le reti).
Ci sorprende che la vocazione dei discepoli cominci con il verbo “vedere” anziché con “chiamare” come ci si aspetterebbe.
Gesù ha gettato il suo sguardo oltre la folla che lo stringe, indirizzandolo verso i quattro pescatori. È forse questo il momento in cui il Signore sceglie i suoi. Ma gli interessati non lo sanno, sono occupati nei gesti quotidiani di sempre, ignari di essere sotto lo sguardo di chi li ama con affetto di predilezione. Anche noi, cari sacerdoti, siamo stati sotto tale sguardo, fin dalla nascita, senza esserne consapevoli fino al giorno in cui il Signore si è fatto avanti. Egli non ha cominciato ad amarci nel momento in cui ci ha chiamati o quando ha ricevuto il nostro sì, bensì ci amava anche prima, da sempre.
Tu Signore fino dal grembo di mia madre hai pronunziato il mio nome (cf.: Is 49,1) e prima di formarmi già mi conoscevi(cf.:Gr 1,5). Hai seguito con amore il mio cammino e hai reso sicuri i miei passi (Sl 39).
Salì in una barca, che era di Simone. Dal cuore che ama scaturisce l’azione. Mi colpisce questo “salire sulla barca di Simone” da parte di Gesù. Cosa è la barca per Simone? Può ben rappresentare la sua vita, essendo pescatore forse fin da piccolo e trascorrendo sulla barca le sue giornate per trarne sostentamento. Dunque, ancor prima di rivolgergli la parola, Gesù sale sulla sua barca, quasi a volergli dire: “amo la tua vita che da sempre conosco e mi appresto ad entrarvi in punta di piedi, in silenzio, mettendomi nei tuoi panni prima di chiamarti, perché tutto amo di te. Assumo la tua storia per santificarla, se tu vuoi, con la mia presenza, rimanendo con te per sempre”. Ognuno di noi può ricordare la tenerezza con cui il Signore è si è fatto presente nella nostra vita.
Lo pregò di scostarsi un poco da terra. Dopo aver veduto ed essersi mosso, finalmente Gesù parla ed è un’altra sorpresa. Non è parola che chiama, ma parola che prega e questo ci stupisce. Il nostro grande Signore ha tutto il diritto di esigere dalle sue creature rispetto e obbedienza, tanto più quando sta per fare loro un dono straordinario; non spetta a Lui “pregarle” e comportarsi verso di esse come un servo, semmai deve essere il contrario. Eppure è stato così anche per noi, la Parola ce lo fa ricordare. Quando il Signore ci ha chiamato ci ha davvero “pregato”, ponendosi nei nostri confronti non come un padrone verso il servo, né come il direttore verso il dipendente, bensì con la gentilezza di chi sta chiedendo un favore. Sì, nel momento in cui diventammo consapevoli della vocazione, da bambini, da adolescenti o da più adulti, ci meravigliò la grande stima che il Signore nutriva per noi, ci fece sentire importanti, preziosi, a Lui necessari per una missione straordinaria. Pur essendo, in realtà, poveri vasi di creta, il Signore ci ha affidato il suo tesoro, pienamente consapevole dei rischi a cui andava incontro, umiliandosi con infinita dolcezza e abbassando sé stesso per onorarci.
La prima richiesta di Gesù rientra perfettamente nelle possibilità di Simone: lui, pescatore, non ha problemi a scostare la propria barca a pochi metri dalla riva, è uno di quei gesti quotidiani che compie quasi meccanicamente, eppure ha un grande valore per il suo cammino di discepolo. Facendogli compiere un’azione semplice, adeguata alle sue capacità, il Signore pone Simone nella possibilità di dimostrargli la propria disponibilità nei suoi confronti. È la sapiente e meravigliosa pedagogia di Gesù: ci chiede di volta in volta quello che possiamo realmente dargli e ci coinvolge secondo le nostre reali capacità, nel massimo rispetto della nostra libertà, aspettando ogni volta la nostra reazione al suo invito prima di compiere il passo successivo. Possiamo anche noi riconoscere nella nostra storia personale la stessa delicata pedagogia con cui il Signore ha guidato i nostri passi verso di Lui.
Tu mi hai dato il tuo scudo di salvezza, la tua destra mi ha sostenuto, la tua bontà mi ha fatto crescere (Sl 17).
La generosità, per quello che di lui possiamo conoscere dai vangeli, è una caratteristica dell’indole di Simon Pietro e in questo caso è bastante per rispondere a quanto gli sta chiedendo il Signore. Gesù però utilizza questa qualità umana per predisporlo a compiere un atto di fede. Simone si ritrova infine a stare sulla barca insieme a Gesù che annuncia la Parola alla folla e, suo malgrado, ad ascoltarla. Meravigliosa e sapiente Provvidenza di Dio! Quanto ha tramato anche nella nostra vita perché diventassimo suoi! Ed ecco che la Parola di Dio è potente e dove trova il terreno buono diventa il seme che attecchisce e porta molto frutto. Gesù ha atteso che il buon seme fosse deposto nel cuore di Pietro prima di rivolgergli la seconda richiesta, per rispondere alla quale, però, adesso non sono più sufficienti le risorse umane. Lo riconosce lo stesso Pietro: solo sulla tua Parola getterò le reti, perché ogni ragionamento umano gli direbbe di non farlo.
Chi è il prete, cari confratelli? Prima di tutto bisogna che sia un uomo di fede. Solo con la fede è possibile per lui stare “al passo” con il Signore e vivere il ministero come si deve. Senza la fede rimarremmo con i nostri ragionamenti umani, inadeguati per agire secondo la Sua volontà, perché rallentano il nostro slancio con l’insinuare ogni tanto la domanda: chi me lo fa fare? Il prete senza la fede diventa incomprensibile anche a sé stesso e perde le motivazioni della sua missione. Egli è fondamentalmente un uomo che cammina sull’acqua, come Pietro, appunto (Mt 14,29). Come possiamo prenderci cura della nostra fede? Abbiamo la preghiera quotidiana, l’Ufficio delle Ore, la meditazione della Sacra Scrittura, la celebrazione eucaristica. Lo sappiamo: dandoci una regola di vita spirituale ed osservandola con costanza vediamo rinvigorire la nostra fede. La Parola accolta e messa in pratica porta frutto. Così avviene in Simone.
Ciò che è descritto dopo la pesca miracolosa, può guidarci in una riflessione sulla nostra storia personale e, riandando con la memoria al giorno della nostra ordinazione, ci aiuta a riconoscere i doni che sono scaturiti dall’imposizione delle mani: l’abbondanza dei pesci, l’aiuto dei compagni, la trasformazione che avviene in Pietro, la sequela e il ministero.
È fondamentale per noi avere sempre ben presente che la barca piena di pesci è opera di Dio. Siamo infatti costituiti pastori e arricchiti di grazia per il popolo di Dio, non per noi stessi. Il sacerdozio ministeriale, come si sa, sta al sacerdozio comune dei fedeli come il mezzo sta al fine (Cf.: CCC 1547) cosicché per ogni dono personale che il Signore ci fa siamo debitori al suo popolo. L’umiltà ci fa riconoscere distintamente ciò che in noi è suo dono e questa è la sapienza più grande, fonte di serenità e letizia. Quando dimentichiamo la grazia ricevuta e cominciamo ad attribuire a noi, alle nostre capacità, ai nostri successi, ciò che invece è suo, diventiamo immediatamente fragili, oltre che, purtroppo, superbi. Se invece attribuiamo a Dio tutto il bene che facciamo, poiché è Lui che ci dona di farlo, siamo veramente poveri. La prima beatitudine ci invita a non temere, né rattristarci della nostra povertà, anzi ad amarla come la nostra vera ricchezza, perché il Signore ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Allora fecero cenno ai compagni (koinwnoi) dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Il sacramento dell’Ordine facendoci presbiteri ci fa allo stesso tempo presbiterio.
(PO 8. Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale)
Il legame fraterno creato dal sacramento è esplicitato dall’imposizione delle mani sul capo del neo ordinato da parte di tutti i sacerdoti. Esso non si basa su affinità elettive, consiste piuttosto in un dato oggettivo, diventato parte di noi precedendo i nostri sentimenti. Gli amici infatti si scelgono, i fratelli no. Essendo la fraternità presbiterale costitutiva dell’essere prete, ne deriva che il presbiterio è il contesto nostro proprio dentro il quale, e soltanto in esso, possiamo comprendere pienamente noi stessi. Un prete che si isola espone la sua spiritualità alla instabilità e corre il rischio di impoverire il suo ministero. Per questo sono così necessarie le nostre riunioni, anche solo per il semplice fatto di stare insieme nello stesso luogo. Può sembrare inverosimile ma ci fa tanto bene essere presenti con gli altri a respirare aria presbiterale, al di là dei rapporti più o meno sereni che possono esserci fra noi. È quanto meno una protezione contro l’Avversario (che non sopporta la nostra fraternità).
Poi vediamo Pietro inginocchiato davanti a Nostro Signore a dirgli: allontanati da me che sono un peccatore. E’ la grazia della verità che lo fa parlare così, mentre percepisce chiaramente cosa egli sia veramente davanti a Dio. E’proprio così, cari confratelli, l’essere prete è la verità del nostro essere, il che equivale a dire che il presbiterato è per ciascuno di noi il modo migliore possibile di essere uomo. Se il Signore ci ha pensati preti, e quindi ci ha chiamati, noi non saremmo così pienamente noi stessi in un’altra vocazione.
Sarai pescatore di uomini. Non credo che Pietro abbia compreso queste parole e comunque di certo non ha lasciato tutto perché attratto dal ruolo (cosa vuol dire, poi, “pescatore di uomini?). Egli non ha trovato finalmente cosa fare da grande, ha incontrato invece una Persona di cui non può più fare a meno, perché essa fino dal grembo di sua madre ha pronunziato il suo nome (Cf.: Is 49,1). La nostra sequela riguarda una Persona, non un ideale, nemmeno il ruolo del prete ci interessa primariamente, ma il Signore e la nostra relazione personale con Lui. Tu Signore ci hai chiamati innanzitutto per stare con Te, poi anche per mandarci a predicare (Cf.:Mc 3,14-15). Questo è anche il significato del nostro celibato. Lo sappiamo: noi non abbiamo scelto il celibato, accogliendo la grazia che ci è stata fatta di viverlo, per avere più tempo da dedicare al ministero, ma per un affetto di predilezione da parte di Nostro Signore. Egli ci ama così intensamente fino ad essere geloso del nostro corpo, che non vuole condividere con altri. E se lasciamo che Lui prenda possesso esclusivo del nostro corpo diventiamo davvero strumento sublime della Sua carità. Essere celibi significa abbandonarsi al Suo amore per appartenere totalmente a Colui che amiamo, portando nel nostro corpo il profumo santo della consacrazione: siamo suoi, “riservati” a Lui per un amore più grande. Guai se intendessimo il nostro celibato come una diminuzione dell’amore! È invece condizione per un amore centuplicato. Soltanto nella fedeltà a questa grazia diventa non solo possibile ma anche lecito entrare nel “santuario dell’uomo”, conoscere la sua intimità, ricevere la sua confessione, accogliere in noi stessi la sua attesa di salvezza. L’offerta del nostro corpo nella forma dell’impegno celibatario, è poi una delle principali cause della fecondità pastorale, non perché abbiamo più disponibilità di tempo ma perché siamo pieni di grazia. Dal primato dell’amore per Cristo prende luce il nostro ministero.
PO 14: Anche i presbiteri, immersi e agitati da un gran numero di impegni derivanti dalla loro missione, possono domandarsi con vera angoscia come fare ad armonizzare la vita interiore con le esigenze dell’azione esterna. Ed effettivamente, per ottenere questa unità di vita non bastano né l’organizzazione puramente esteriore delle attività pastorali, né la sola pratica degli esercizi di pietà, quantunque siano di grande utilità. L’unità di vita può essere raggiunta invece dai presbiteri seguendo nello svolgimento del loro ministero l’esempio di Cristo Signore, il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera.
Il nostro carisma specifico di presbiteri consiste nell’amare Cristo servendo il suo popolo. Gesù ogni giorno rivolge a noi la stessa domanda che fece a Pietro: mi ami? (Gv 21,15) Allora pasci le mie pecore. Il nostro amore per il Signore è sostanziato dall’amore per il suo popolo. La domanda sull’amore verso Gesù Pastore precede e determina il mandato verso il gregge. La carità pastorale ha come primo oggetto il nostro Beneamato Pastore il quale ci dona di amare il suo popolo. Se non fossimo uniti a Cristo nell’amore non porteremmo altro che noi stessi agli altri e che se ne fanno? Abbiamo invece in noi stessi Lui e la sua luce risplende attraverso la nostra umanità a far lieta la gente. L’amore per Cristo costituisce la motivazione prioritaria della nostra dedizione pastorale. L’amore per Cristo sostanziato dall’amore per il suo popolo trova una espressione peculiare nella conoscenza che il prete ha dei suoi parrocchiani o della comunità che serve. Rimango incantato quando voi mi raccontate di quella o quell’altra persona, vostra parrocchiana, dimostrando non solo di essere informati su di essa ma di portarla nel cuore, parlandone da pastori. Siete davvero collocati al centro dell’anima del popolo che vi è affidato e rivestiti della grazia di Cristo. In questa dedizione interiore al vostro popolo si trova una espressione autentica della vostra consacrazione.
PO 14: nell’esercizio stesso della carità pastorale troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà la unità nella loro vita e attività. D’altra parte, questa carità pastorale scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta quindi il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, cosicché lo spirito sacerdotale si studia di rispecchiare ciò che viene realizzato sull’altare. Ma ciò non è possibile se i sacerdoti non penetrano sempre più a fondo nel mistero di Cristo con la preghiera.
Pescatori di uomini: il nostro ministero ci proietta profondamente nella vita delle persone. Il prete ha la grazia di poter accedere all’uomo diventando un eccellente esperto in umanità. Ci è dato di accompagnare le persone per tutto lo svolgersi della loro vita, diventando partecipi delle loro gioie e delle loro sofferenze. Siamo presenti alla loro nascita e alla loro morte e nei momenti cruciali nel corso della loro esistenza: che grande privilegio! Vengono in mente le parole del Signore a Mosè: togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! (Es 3,5). Stare con la gente nella quotidianità, è già, benché esso trovi la sua collocazione 7 propria nella celebrazione dei sacramenti, un esercizio del munus sanctificandi, essendo stati costituiti, mediante l’ordinazione, presenza sacramentale di Cristo in mezzo al suo popolo (cf.:PO 12). La nostra umanità, così com’è, con pregi e difetti, è assunta da Gesù come tramite per beneficare la gente. Che grande mistero! E se la pesca non è abbondante? Questo ultimo pensiero è necessario prima di concludere, considerando le difficoltà pastorali del tempo che viviamo. La diminuzione della pratica religiosa, la crisi della famiglia e la sfida della trasmissione della fede alle nuove generazioni, sono alcune delle preoccupazioni che possono smorzare il nostro entusiasmo e affaticare la nostra fede. Certo, i ricordi del passato possono tentarci a frenare il nostro slancio, tanto niente sarà più come prima. Vogliamo invece vivere il tempo presente con tutta la nostra buona volontà, senza tirarci indietro. Non possiamo distrarci dall’essenziale: che la nostra è prima di tutto una vita offerta al Signore e alla Sua Chiesa, e che ciò ha un valore enorme in termini di evangelizzazione e di santificazione. Nella celebrazione eucaristica quotidiana ci uniamo, di fatto, all’offerta che Cristo fa di sé al Padre per la santificazione dell’uomo e lì c’è tutto. Niente ci tolga questa grazia, né preoccupazioni, né delusioni, né fallimenti dei nostri piani. Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo (Qo 3,1) e non possiamo conoscere i piani di Dio. Di certo dobbiamo tendere alla santità, cercando la gloria Sua e dimenticando la nostra. Quello che ci dai da vivere noi lo viviamo per Te, Signore, perché ti amiamo. Tu soccorrici nella nostra debolezza e non permettere che il nostro cuore si raffreddi. Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore (Sl 115).
“Il presbitero è chiamato a configurarsi a Cristo, capo e pastore della Chiesa. La configurazione a Cristo capo coincide con il suo servizio, con il suo dono, con la sua dedizione totale umile e amorosa nei riguardi della Chiesa, con la sua carità pastorale” (PDV, 21).
