“Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico” (Dt 34,1a). In fondo al racconto della Torah, Pentateuco per noi, troviamo infatti un’altra salita su un monte. Questa volta però non è un “divisore”, un “diavolo”, come in Nm 22-24 fu per Bala’am, a condurre il malcapitato di cima in cima per ottenere una maledizione. È Dio stesso che sarà incontrato, su quel monte, e per Mosè sarà l’ultimo incontro con Lui, su questa terra.
Dopo tanto vagare l’evento che ci attende sul limitare della Terra promessa è una morte.
Ed è la morte del condottiero, del servo di Dio, del profeta. Apparentemente è il racconto di una fine, ma già nelle ultime righe del capitolo 34 di Deuteronomio, scopriamo che la storia continua: la Torah, non ha una conclusione, il suo finale è aperto verso il futuro, nello stesso modo in cui in Marco 16,1-8 si chiuderà il racconto della resurrezione.
Mosè sale su quel monte, dove sempre ha incontrato Dio. Monti differenti per un medesimo incontro: Horeb/Sinai e Nebo. E “YHWH gli mostrò tutta la terra” (Dt 16,1b). E quindi drammaticamente gli annuncia: “Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: «Io la darò alla tua discendenza. Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai” (Dt 34,4).
Mosè, dunque, “morì in quel luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine di YHWH” (Dt 34,5), fu sepolto lì, ma “Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba”. Fatto strano questo, che richiama alla mente altre “sparizioni”, in apparenza più eclatanti, come quelle di Enoch ed Elia.
Mosè sembra essere stato soggetto ad una morte comune e ad una sepoltura come tutti, ma il luogo della sua tomba è sconosciuto, e la sensazione circa gli eventi è che la sua sia una scomparsa.
Mosè muore a centoventi anni, tanti ma molti meno rispetto agli antichi patriarchi pre-diluviani, ancora nel pieno delle sue facoltà fisiche, “Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno” (Dt 34,7). Dopo il periodo consueto del lutto, gli succede “Giosuè, figlio di Nun”, che “era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui” (Dt 34,9): Mosè ha quindi un successore, già eletto, a cui Israele obbedisce in quanto indicato da Dio stesso tramite l’antico condottiero.
Il capitolo, il Deuteronomio, e la Torah, terminano con un ritratto eloquente di Mosè, che ne definisce la sua identità più profonda: “Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia, per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nella terra d’Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro tutta la sua terra, e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele” (Dt 34,10-12).
Mosè, già definito in precedenza ‘ebed, servo di YHWH, quindi, con una relazione particolare con Dio implicante un’elezione, assume adesso connotati quasi assoluti. Egli è nabi, profeta, colui che rappresenta la conclusione del cammino di Israele lungo il deserto, che nel precedente articolo abbiamo già visto essere, appunto, via verso la profezia. Ed è il vertice della carica profetica, tanto che dopo di lui non ci fu più nessuno alla stessa altezza: grande riconoscimento vista la grandezza della profezia in Israele lungo la sua storia antica.
In quanto servo e profeta, poi, agisce mandato da Dio con “segni e prodigi”, “mano potente e terrore grande”, tutti termini riferiti quasi sempre a Dio stesso. È in sostanza Dio che agisce attraverso di lui. Il “servo inviato” compie azioni che solo Dio è in grado di compiere. Oltre a divenire “parola vivente”, diventa anche “atto agente” per mano di Dio.
Ma allora, ed è questa la domanda che emerge in maniera prepotente dal testo, perché Mosè non è entrato nella Terra?
La prima considerazione da fare riguarda il fatto che ci troviamo su un confine. Il monte dell’incontro è proprio questo, un confine, una soglia. Mosè arriva su questa soglia e deve fermarsi. Le parole di Dio sono durissime, e per giunta non viene rivelata la motivazione dell’ingiunzione di cui il profeta è oggetto. Molti hanno provato a ricostruire questo motivo nascosto, ma senza esiti certi e definitivi.
Dal canto mio mi permetto di esprimere una suggestione: amo pensare che il motivo per cui Dio non permette l’ingresso di Mosè nella Terra riguardi il suo essersi sentito talvolta indispensabile.
Mosè è fin dalla sua nascita uomo della soglia, fin da piccolo (il suo nome in egiziano antico, mse’ significa semplicemente “figlio”); appena nato sfugge alla morte dentro una cesta bitumata, definita nella Scrittura con lo stesso nome dell’arca, tevah, che significa anche cesta; diviene, poi, uomo di corte del Faraone pur rimanendo ebreo, e questo ebraismo lo spinge fino all’omicidio. Deve fuggire in Madian, Nord dell’Arabia, si costruisce una famiglia e una vita, ma viene richiamato indietro da Dio. Da qui un nuovo ruolo, il deserto, e ora la Terra da lontano. Sempre in bilico, sempre precario, sempre in movimento, sempre sul confine di una vita o di una terra.
Questa suo stato è segno di una condizione comune dell’uomo, che riguarda proprio la sua “non indispensabilità”. Mosè è il condottiero, il servo di Dio e il profeta, come mai ce ne sono stati e mai ce ne saranno, ma anche lui, proprio lui, arriva fino ad un certo punto e poi si deve fermare. Qualcun altro continuerà il cammino che, a sua volta, dovrà ad un certo momento fermarsi, Giosuè e chi verrà dopo di lui.
Nessuno può ritenersi così tanto importante da pensarsi indispensabile, neanche ci si può considerare i “migliori”. La lezione di Mosè è proprio questa: nessuno raggiunge la pienezza, nessuno percorre tutta la strada. Il cammino è completo nella sua interezza, noi ne attraversiamo solo un pezzo. È un concetto fondamentale, perché la completezza, il compimento di tutto e di tutti è in Dio, e Dio stesso ingiunge di fermarsi.
E inoltre, siamo sicuri che la Terra di Canà’an sia la vera “Terra” promessa? L’esperienza di Mosè non ci dice forse che la “casa” definitiva” è quella del Padre?
Mosè non entra nella Terra, ma la sua tomba scompare. Io credo sia perché lui ha raggiunto “corpo e anima” la vera Terra. Dio lo ferma perché l’uomo ha un limite, fisico e temporale, che scompare in Dio. E Mosè adesso è in Dio.
Se vogliamo parlare di risurrezione possiamo quindi dire che in Mosè si opera una doppia risurrezione: la risurrezione alla vita nuova, non nella Terra di Canà’an, ma in quella veramente “promessa”, la Terra dell’eternità. E la risurrezione del ricordo e dell’eredità in cui continua a vivere il “profeta”: in Giosuè, figlio di Nun, sul quale “Mosè aveva imposto le mani”. Mosè continua a vivere qui sulla Terra nella sua eredità spirituale e materiale, e nella Terra del cielo, perché, ce lo dice Gesù stesso, il nostro Dio “non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,32). E gli stessi vivi evocati da Gesù, Abramo, Isacco e Giacobbe, vengono evocati qui, come i padri della promessa.
La tomba “scomparsa” diventerà poi la tomba vuota. Dio stesso risorgerà il Figlio per indicare a sua volta la vera Terra, e ogni tomba scomparirà alla fine dei tempi perché tutti, come Mosè, la raggiungeremo. E il momento estremo, quello della morte, anch’esso comune a tutti, non sarà un vedere una Terra irraggiungibile, ma l’attraversare finalmente la soglia, il confine, per entrare nella dei terra padri, e del Padre vivente.
Roberto Bisio
Presidente Centro Culturale San Paolo