Fine … o Spirito Santo?

C i siamo lasciati con l’articolo precedente in compagnia di Mosè di fronte alla Terra di Cana’an. Terra che non avrebbe raggiunto, in favore dell’ingresso in un’altra “terra”, questa volta eterna.
Con questo contributo, che conclude il ciclo di articoli sulla risurrezione, compiamo un salto temporale lunghissimo, che ci porta addirittura a dopo la risurrezione stessa, quando il percorso terreno del Figlio incarnato si è ormai compiuto nella sua pienezza.
Non deve apparire strano questo passaggio. Come fa un percorso sulla risurrezione a saltare per intero l’evento che ne costituisce il fulcro? In realtà la risurrezione è sempre presente, talmente presente che costituisce il riferimento costante di tutto il cammino, di questi articoli e dell’uomo nella sua esistenza terrena. È quasi inutile soffermarsi su un avvenimento così chiaro, così “reale”, storico, fondante e rinnovante, poiché quello che ci resta sono le sue tracce nel passato di Israele e le sue conseguenze rivoluzionarie nella storia che lo ha seguito fino ad oggi. Ed è questo che noi abbiamo davanti agli occhi, pur non avendo visto come invece vide il nostro dìdumos, gemello, Tommaso.
Eccoci, dunque, all’inizio del libro degli Atti degli Apostoli. Tutto sembra concluso nell’esperienza terrena di Gesù tra gli uomini. Anche la sua ascensione al cielo ha ormai avuto luogo. Gli Apostoli si nascondono per la paura di essere scovati e arrestati. Giuda si è ucciso. Che cosa può succedere ancora? È la domanda che si pongono anche gli Apostoli.
Ci viene in aiuto la conclusione della Torah: il suo finale infatti è aperto, Mosè muore, ma la tomba scompare, e la storia di Israele proseguirà con Giosuè. E anche la fine del Vangelo più antico, quello di Marco presenta la stessa conclusione aperta. In Mc 16,8, infatti, le donne “uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”. Tutto qui. I versetti successivi, che chiudono questo Vangelo, sono solo aggiunte redazionali tardive.
Non può finire tutto così, una prosecuzione è presupposta, anche perché, se a noi è giunta la notizia della risurrezione, le donne in qualche modo successivamente devono aver raccontato. Anche alcuni studiosi ritengono che il Vangelo non si concludesse in questo modo, ma esistesse una prosecuzione andata perduta.
Ebbene, anche per Luca, che scrive il suo Vangelo e lo prosegue con il “secondo volume” degli Atti, dopo la “fuga” delle donne, che lui non descrive, la storia è già continuata. Ora, però, abbiamo una stasi nel racconto. Ma, si badi bene, nulla è in realtà concluso, l’atmosfera è sospesa, e qualcosa sta per accadere. E la domanda rimane: cosa deve succedere adesso?
“Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatté impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 2,1-4). Ecco cosa accade: lo Spirito, già preannunciato nel Vangelo, scende sulla comunità apostolica, riunita probabilmente “dove era solita”, ovvero “nella stanza al piano superiore”, quella dell’ultima cena. Erano presenti anche le donne, e Maria, a pieno titolo facenti parte di quella prima comunità cristiana.
In questi giorni si celebra proprio la Pentecoste, festa ebraica “cristianizzata”. Festa del raccolto del grano e del dono della Torah, avvenuto secondo la tradizione biblica quarantanove giorni dopo pesach, la Pasqua come uscita dall’Egitto. Shavuot, le “settimane”, diviene in ambito cristiano la festa della ricezione dello Spirito, “cinquanta giorni”, pentekostè (“cinquantesimo” giorno, ovvero il primo giorno dopo quarantanove giorni), dopo la risurrezione.
È, quindi, questa la festa della “continuazione della storia”, quello che doveva accadere dopo che il Dio fatto uomo era ritornato al Padre, ovvero: la continuazione della presenza, shekinah, di Dio tra gli uomini, a prescindere dalla sua “visibilità”, che fosse il tempio di pietra o quello di carne in Gesù.
Lo Spirito “entra” nell’uomo, che diventa così, lui stesso, come affermerà anche Paolo, il “tempio” vivente, custode di una presenza, lui stesso presenza viva.
Direi che, come prosecuzione, non è deludente. L’uomo viene nuovamente e più profondamente responsabilizzato di fronte a sé stesso, agli altri uomini, alla creazione e alla storia. In questo modo ritorna ad essere l’uomo di Eden. Non è, cioè, solo la purezza, ma la responsabilità condivisa e assunta a farci riacquisire la tselem e demut, immagine e somiglianza del Dio creatore.
A conclusione alcune notazioni sul breve testo di At 2,1-4: lo Spirito scende dopo un “fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso” (At 2,2). Non è dunque la qol demamah daqqah, voce di silenzio svuotato, di 1 Re 19,13, è proprio il contrario, ciò che non accade ad Elia. Come mai? Dio parla e Dio tace, Dio risponde oppure no. Dio parla nel silenzio ma anche ad alta voce, tanto alta da sembrare fragore, o almeno così la intendiamo noi. Il “dopo risurrezione” è il momento della Parola parlata, della Parola che deve essere detta e compresa da chi la ascolta. E chi parla deve essere in grado di farsi comprendere da chi ascolta. È questo il significato della glossolalia, la capacità di parlare le lingue, che viene attribuita agli Apostoli. È un segno della necessità di essere comprensibili, capacità resa effettiva se è lo Spirito a parlare in noi.
Arriviamo dunque alla seconda parte del segno pentecostale: le lingue di fuoco. Se lo Spirito parla negli Apostoli, essi divengono Parola vivente, ovvero “profeti”, e il fuoco è proprio il simbolo della profezia. Ricordate come anche per Israele la meta, la Terra, era in fondo la profezia, ovvero la condizione di Parola vivente di Dio, segno e sacramento per tutti i popoli del mondo? E come anche Mosè fu tale e fu non solo parola, ma anche “atto vivente” di Dio, nel suo essere “servo”?
Ebbene, questa è la “meta” e contemporaneamente la prosecuzione del viaggio. Lo Spirito rende gli Apostoli, e noi, non messaggeri, non annunciatori, ma vera e propria Parola che parla nel mondo attraverso i suoi “atti” (il titolo dell’opera lucana non è a caso).
E ciò avviene immediatamente. Pietro parla, e parla a lungo. E Pietro si rivolge anche all’Antico Testamento, come lo chiamiamo noi oggi. Cita Gioele 3,1-5, e i Salmi 16,8-11 e 110,1. Come testimone della parabola terrena di Gesù, della sua morte e della sua risurrezione, l’Apostolo richiama i padri, dichiarando così che l’Antico Testamento ha valenza fondativa rispetto al Nuovo.
La storia diviene così unitaria, il percorso ha un filo rosso che lo tiene insieme e lo fonda: la risurrezione, prima, durante e dopo l’incarnazione.
Dio “ha risuscitato” Gesù (cfr. At 2,24), anèstesen in greco. Gesù non si è risuscitato, ma “è stato risuscitato” dal Padre, perché è “primizia di coloro che sono morti” e saranno poi risuscitati nell’ultimo giorno, ma anche perché la relazione divina non fa “da sé”, ma “fa insieme”, rende “uno”, sé stessa, l’uomo e la storia. E la risurrezione unifica l’uomo e la storia, Israele e i goiim, tutte le genti.
Non è senza significato che la conseguenza della Parola detta tra le genti è la “comunità” cristiana, unita e unica, come descritta nell’ultima parte del capitolo: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo (At 2,42-47). È il frutto della risurrezione, ed è un frutto feriale, quotidiano, “normale”, che va sprecato se l’uomo ritorna a “fare da sé”, come l’adam in Eden.
Il cerchio si chiude, ma il racconto rimane ancora aperto, fino al “completamento” della storia in Dio. Fino alla nostra risurrezione.

Roberto Bisio
Presidente Centro Culturale San Paolo