Per continuare a parlare di “Deserto” ho scelto due racconti non consueti, che affrontano l’esperienza ebraica al Sinai e i successivi quarant’anni da una prospettiva differente, direi, parafrasando Huysmans, à rebours, a ritroso. Si tratta della “morte di Mosè”, che analizzeremo nel prossimo articolo, e il racconto di Bala’am, oggetto di questo contributo.
Siamo, dunque, con Numeri 22-24 già a Moab, al di là del deserto. Gli israeliti si sono accampati e attendono di fare il loro ingresso nella Terra di Cana’an. Il re di Moab, Balàkh, teme di essere sopraffatto da questo nuovo popolo che si è affacciato sulle sue terre. Decide dunque di ricorrere a Bala’àm, un indovino proveniente, “dal paese dei figli di Amau”, a Oriente, perché maledica gli israeliti.
Prendono avvio in questo modo una serie di peripezie, che vedono Bala’àm protagonista di un cammino straordinario di conversione attraverso incontri, ostacoli e apparenti contraddizioni.
Il racconto è complesso, per cui ci soffermeremo solo su due momenti in particolare rimandando ai lettori il piacere di ricostruire tutte le vicende direttamente dal testo.
Analizzeremo quindi l’incontro/scontro di Bala’àm con l’angelo e i tre tentativi di Balàkh di ottenere la maledizione di Israele. Prima però una breve considerazione semantica: il testo originale utilizza diversi termini per “maledizione” e “maledire”, mentre un’unica radice è impiegata per “benedizione” e “benedire”, ovvero b-r-kh, da cui il verbo barakh. Esistono pertanto per la lingua ebraica diversi generi e fonti di maledizione, ma esiste una sola benedizione: quella di Dio, e quella verso Dio, tanto che la lode risulta essere l’antitesi alla maledizione. Il verbo, infatti, più usato in ebraico per “maledire” è qalal, in chiaro rapporto con halal, “lodare” (da cui l’imperativo hallelu-ia, “lodate YHWH”). La lode, dunque, è l’opposto della maledizione, poiché è la benedizione “a Dio”.
Bala’àm, Bil’àm in ebraico, il “senza popolo” o il “non popolo”, lo straniero, l’apolide, si mette dunque in viaggio verso la corte di Balàkh, il re che desidera maledire il “popolo” di Dio, ma un angelo lungo la via si erge davanti a lui e compie un’azione che in ebraico viene resa con lesatàn. Le traduzioni riportano spesso “per ostacolarlo”, ma lesatàn significa letteralmente, “come avversario”, “come accusatore” (Nm 22,22): “come satana”. Un angelo, dunque, si pone “come satana”, paradosso evidente e apparentemente fuorviante.
Come altrettanto paradossale è il fatto che è l’asina sul quale l’indovino viaggia a scorgere l’angelo e a cercare di sfuggirgli conducendo lontano Bala’àm, che non capendo le intenzioni dell’animale la percuote. Il messaggero divino costringe l’asina e il suo carico in un vicolo cieco, talmente stretto “che non vi era modo di ritirarsi né a destra, né a sinistra” (Nm 22,26). Ma lo straniero continua a non comprendere e si accanisce contro l’asina, che si è accovacciata sotto di lui.
A questo punto avviene l’inaspettato: l’asina utilizza la conoscenza che Bala’àm ha di lei e gli dice: “Non sono io la tua asina sulla quale hai sempre cavalcato fino ad oggi? Sono forse abituata ad agire così?” (Nm 22,30). È dunque il rapporto “personale” che convince Bala’àm che qualcosa di particolare sta accadendo, ed è in questo frangente che Dio gli apre occhi e gli fa vedere l’angelo per quella che è la sua vera natura non un satàn, ma un malàkh, un “messaggero” di Dio, colui che parla per conto di Dio.
E Dio chiede a Bala’àm di parlare le sue parole al cospetto di Balàkh.
Questo racconto genera diverse riflessioni, ne evidenzio alcune, che riguardano in particolare la comprensione ex post dell’agire di Dio.
Così come l’angelo in questo caso ha chiuso l’indovino in un vicolo cieco per far operare un riconoscimento, allo stesso modo Dio in vari luoghi della Bibbia per amore del suo popolo, spesso senza il suo consenso, giunge a “ergersi” come avversario, a mettere l’uomo con le spalle al muro pur di salvarlo e mostrargli la via.
L’uomo però non capisce l’azione di Dio e anzi lo percepisce come l’avversario che davanti a lui si para e non come il salvatore che lo avvicina.
La strada è dunque quella dell’abbandono fiducioso alla volontà e ai piani di Dio permettendo così che la verità si sveli nelle sue sfumature, che la natura del bene si manifesti e che il percorso per divenire “parola vivente” finalmente si compia.
Proseguendo il racconto e sulla scorta di questo incontro l’indovino che si reca da Balàkh è già un uomo diverso da quello che si era messo in cammino. Il re di Moab trascina per tre volte Bala’àm in luoghi particolari, sempre in alto, sempre “in cima”: “lo fece salire a Bamot-Baal” (Nm 22,41), “al campo di Zofim, sulla cima del Pisga” (Nm 23,14) e “in cima al Peor, che è di fronte al deserto” (Nm 23,28) allo scopo di far maledire il popolo di Israele.
È profonda l’assonanza tra questo testo e il racconto dei quaranta giorni di Gesù nel deserto in Lc 4,1-13.
Lo schema del racconto è identico: un incontro, seguito da tre “tentazioni” e una conclusione in cui il tentatore va sconfitto per la sua strada. Ovviamente sono molte anche le differenze tra i due brani, prima fra tutti quella che riguarda la figura del protagonista qui un indovino straniero, in Luca il Figlio di Dio, ed è una delle ragioni per cui nel testo lucano è lo Spirito di Dio a guidare Gesù nel deserto, e lo fa all’inizio del cammino, mentre qui, è a Peor “di fronte al deserto” solo in fondo al percorso lo Spirito finalmente “fu sopra di lui” (Nm 24,2). Un punto di contatto è però particolarmente importante e riguarda proprio Balakh il re. Il suo nome, infatti, è un verbo, che significa “spaccare”. In tutto simile, quindi, a diàbolos (diavolo), da diabàllo, “dividere”, Balakh è lui il diavolo, ed è infatti lui a portare Bala’am in alto, tre volte, tentandolo per fargli maledire Israele. Il vero Diavolo è, dunque, colui che appare come il re, come l’”amico”, mentre il falso satàn è in realtà un angelo.
È veramente difficile distinguere, discernere, comprendere gli atti degli uomini così come quelli di Dio. Solo aver dato ascolto all’angelo ha permesso a Bala’àm, l’uomo “qualunque”, lo straniero, l’apolide, di benedire e non maledire Israele, di essere parola vivente nelle mani di Dio, e non canna sbattuta dal vento, prigioniera delle paure di un “divisore”.
Il messaggio profondo del testo è dunque legato alla “profezia”. Bala’àm da indovino diviene profeta, cioè colui che parla le parole di Dio, perché nelle difficoltà della vita e nella sua stessa incomprensione, riesce a riconoscere prima la relazione con l’amico (l’asina) e poi l’amore di Dio, che lo costringe in un angolo, affinché benedica e non maledica. Così alla fine Bala’àm legge veramente nel cuore di Dio ed è in grado di vedere, oltre il suo presente e oltre la storia, che “Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Nm 24,17), il vero re, prima di Israele e poi dell’intero universo. È in fondo la sua risurrezione, che nel suo caso è trasformazione di lui stesso in “parola” profetica.
Bala’àm e il suo percorso si propongono così come immagine di Israele e del suo viaggio nel deserto appena compiuto, che è in fin dei conti un viaggio verso la profezia. Il popolo di Dio vaga nel deserto non riuscendo spesso a comprendere dov’è il bene e dove il male, chi deve seguire e da chi si deve allontanare. Dio lo mette più volte alle strette affinché apra gli occhi e veda la strada da percorrere, ma non fa comunque mai mancare la sua presenza, sia spirituale, che materiale. In fondo al cammino c’è la Terra promessa, e con essa la profezia della stirpe di David, da cui emergerà l’Unto, e i profeti stessi, che con la loro vita sapranno rileggere la storia con gli occhi di Dio. Il “non popolo” diventa “popolo” e la maledizione del deserto benedizione profetica, verso la risurrezione del Messia.
Roberto Bisio
Presidente
Centro Culturale San Paolo