I l racconto di Caino e Abele, i primi figli dei progenitori di Eden, è conosciuto per diversi elementi, che ne caratterizzano lo sviluppo: il sacrificio a Dio di entrambi, la rabbia di Caino, l’uccisione di Abele, le parole di Dio e di Caino, la sua “cacciata” e il segno imposto per la sua “salvezza”.
Il silenzio di questo brano è un silenzio di morte. Lo dimostra bene proprio la figura dell’ucciso, Abele. Egli, infatti, non fa in tempo a proferire parola, la sua vita è un “soffio” come dice il suo nome, ‘evel, fumo, vapore, lo stesso termine che si usa in Qoelet, dove si trova normalmente tradotto con “vanità”. Abele semplicemente offre il suo sacrificio a Dio, Caino gli parla (frase che rimane in sospeso, cfr. Gen 4,8), quindi viene ucciso. Da lui nessuna parola. Solo dopo la morte, il “soffio” fa sentire il suo “urlo” a Dio stesso: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo” (Gen 4,10).
Troviamo poi il “peccato”: genera la morte, ma non si fa notare, tace e si nasconde. Come una belva è in agguato alla “porta”: la porta del cuore, la porta della vita, la porta della parola e del gesto, la porta dell’uomo verso l’altro uomo, e “Verso di te è il suo istinto, e tu dominalo” (Gen 4,7). Il “peccato” accovacciato e silenzioso che ci desidera e che dobbiamo dominare è la rabbia. Ci desidera e non resistiamo come il fratricida, perché è il nostro modo di coprire la nostra “impotenza”, il nostro limite (il sacrificio non gradito di Caino). È una lotta nuovamente interiore, non ci sono parole, solo pensieri e impulsi, intelligenza e istinto.
Caino, però, perde questa battaglia. Uccide il fratello, e poi ne “tace” la morte alla domanda di Dio: “Dov’è Abele, tuo fratello?” (Gen 4,9). Il rimando a Genesi 3 e alla domanda di Dio all’’adam è evidente: “Dove sei tu?”, “Dov’è tuo fratello?”. Anche il passaggio, il “salto di qualità”, è evidente: dal tu all’altro. Dio domanda di una responsabilità verso il fratello, non può essere altrimenti. Caino, però, risponde mentendo: “Non lo so”, rimanendo in silenzio sul suo gesto, in un atteggiamento che richiama quello del padre in Eden, ma con un cinismo che non riconosciamo nell’’adam: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Qui il legame tra silenzio come “omertà su sé stessi”, “non conoscenza” e morte è chiaro. Si tace sul proprio omicidio richiamandosi ad una “non responsabilità” verso il fratello scomparso.
Propongo alcune riflessioni su questi silenzi.
Abbiamo tutti un Abele, un “soffio”, da custodire, il nostro soffio e quello altrui, che spesso uccidiamo in nome di noi stessi e della nostra rabbia. Rabbia ed egoismo (se vogliamo, l’attenzione eccessiva al “nostro” soffio) permettono al “peccato”, che è lì accanto alla nostra “porta”, di prendere il sopravvento.
“Conoscere” dov’è Abele, l’altro soffio, nostro fratello, dovrebbe indurci a “custodirlo” nella responsabilità. Il contrario è una cinica uccisione della vita: il soffio che sopprimiamo per prenderci tutto. In un circolo vizioso che porta solo morte.
Ancora il soffio, però, rompe finalmente il silenzio, grida dalla terra, l’’adamah da cui l’uomo è stato tratto. Dio ascolta questo silenzio rotto: il grido è il dolore che squarcia il silenzio e che Dio “sente”. In questo caso la crasi tra silenzio e urlo determina il trauma e il trauma l’ascolto. Il silenzio è termine di paragone, metro di giudizio, sguardo a cui non si sfugge, perché ci pone davanti a noi stessi.
Un’altra domanda, “Che hai fatto?”, costringe Caino alla resa, ancora come l’’adam. Non può più mentire e deve affrontare le conseguenze delle sue azioni. Viene maledetto, allontanato dalla stessa ‘adamah, che aveva inghiottito il fratello, e che non lo arricchirà più con i suoi doni. Ma anche protetto con il segno, perché pure Caino, come dice il suo nome, è un “acquisto” concesso da Dio.
Le somiglianze tra il racconto dei progenitori e quello dei fratelli sono veramente notevoli (ne abbiamo colto qui solo alcuni accenni), al punto che sembrano uno l’approfondimento dell’altro. In Gen 4 si trova, però, qualcosa di diverso: l’uccisione del silenzioso, la cui esistenza è nulla, è vapore che scompare all’aria. La responsabilità verso Dio, raccontata dal nascondimento dell’’adam, si definisce così con più forza divenendo quella del soffio, della vita fragile, dell’altro da custodire custodendo sé stessi dal peccato nascosto alla porta della relazione.
Roberto Bisio
Presidente
Centro Culturale San Paolo

