Silenzio e fuga

Ci troviamo in Eden, dopo che Dio ha creato l’uomo e la donna, nella seconda parte del racconto delle origini. La creazione nel c. 2 di Genesi avviene senza “parole” o “pensieri”: Dio “fa’” senza parlare, e inizia a comunicare solo con l’uomo, appena plasmato dalla terra.

Il silenzio di cui tratteremo è però diverso, è conseguenza di un altro dialogo ed è un silenzio pesante, è il momento in cui il “male” viene conosciuto.

Lo scambio è tra la donna e il serpente, il nachash (dal verbo omonimo, “brillare”, “sussurrare”, “incantare”). È un dialogo, certo, fatto di parole, ma ha due caratteristiche particolari: è la proiezione esterna di un dialogo interno alla persona, ed è fatto di sotterfugi in cui le parole “servono” per uno scopo altro, rispetto a ciò che dicono. Di fatto, si tace l’obiettivo per ottenerlo.

Per questi motivi non è un parlare ad alta voce, è un “sussurro”, che “incanta” con il suo “brillare”. Ci sono cose che provocano desiderio con la loro “presenza”, che è provocazione nella misura in cui ci lasciamo incantare. Il tacere riguardo allo scopo del serpente riguarda proprio questa presenza che ci inganna, rendendoci desiderabili cose che non cambiano la vita, ma semplicemente, una volta raggiunte, ci rendono consapevoli della loro relativa inutilità. È quello che succede ai progenitori: una volta mangiato del frutto dell’albero “conoscono” la loro nudità. Il frutto non è servito a niente, anzi ha reso evidente la precarietà che appartiene all’umano.

All’interno della vicenda emerge, però, un silenzio che lascia interdetti: quello dell’’adam. Egli mangia del frutto, che gli viene dato, senza dire niente. Poi fugge e si nasconde, assieme alla donna, dalla presenza di Dio, dopo essersi visto nudo.

È un silenzio colpevole e allo stesso tempo immobile. È il silenzio di chi si trova di fronte il proprio limite e diviene consapevole dell’abisso su cui cammina. L’abisso di un’immortalità creduta, ma non effettiva, di una “divinità” che la nudità contesta e cancella. L’abisso dell’idolatria, che ci dice: “io posso fare per conto mio, non dipendo da nessuno, e posso conoscere il bene e il male, anzi decidere ciò che è bene e ciò che è male senza limitazioni”. È anche paradossalmente, l’abisso del “lasciar fare”, del tacere per non aver problemi; c’è chi ha deciso per noi e noi ci adeguiamo.

È, in fin dei conti, la fuga dalla responsabilità verso Dio, che aveva segnalato il limite, che è creaturale, non semplice imposizione dall’alto. Ed è fuga dalle stesse scelte, e non scelte, dell’’adam, la cui conseguenza è proprio il rifugiarsi in sé stesso, il nascondersi a Dio e al mondo.

Dio però cerca l’uomo e lo pone di fronte a sé stesso, alle proprie responsabilità: dove sei? L’ebraico è molto chiaro: ‘aiekhah, letteralmente: “dove (sei) tu? Domanda rivolta a un “tu” preciso: l’uomo. Non si può più scappare: l’’adam deve rispondere e dichiarare la sua condizione e la sua responsabilità: “ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”. È il momento di affrontare le conseguenze dei propri atti e dei propri silenzi, fino alla “cacciata” da Eden: una fuga obbligata che diventa cammino verso sé stessi.

Vorrei proporre alcune riflessioni.

I progenitori fuggono dal “rumore” dei passi di Dio: il rumore come vedremo è distruzione; potremmo dire che questa è una sorta di anticipazione del diluvio. Il male fa sentire il “rumore” che sovrasta il silenzio delle origini. Fa sentire il rumore di Dio e non il suo silenzio creatore. Il silenzio, dunque, in questo caso cerca di far tacere il rumore del “male”, anche del dolore, attraverso la fuga da Dio e da sé stessi, dettata dalla paura.

E questa paura non è il “timore di Dio”, che ritroviamo soprattutto nei testi sapienziali. Non è, cioè, il sentimento del sacro o la presenza del Santo a generare una sorta di “rispetto”, che coglie l’alterità di Dio e la sua trascendenza, sentimento che provano Mosè di fronte al roveto, e Giacobbe a Bet’el nella notte del sogno. È proprio paura, che vede in Dio un “giudice” e non colui che cammina con l’uomo nello stesso giardino e lo cerca a dispetto della sua fuga. Un giudice, perché la paura è quella del giudizio e del castigo, dettata dal senso di colpa, di cui Dio non sa che farsene. Dio vuole che l’uomo sia tale, cioè “umano”, per cui il limite stesso che lo caratterizza diventa risorsa.

Esiste, dunque, un silenzio che fa paura, ed è il silenzio di chi si trova di fronte al proprio limite, e questo limite è normalmente connesso con il proprio sentimento di onnipotenza. Fa paura perché si coglie in tutta la sua portata la propria fragilità. E fa paura perché in questo modo anche Dio, e la morte, fanno paura. Insomma, l’errore dell’’adam e della sua donna è nel cattivo direzionamento del proprio silenzio, e nel non rendersi conto che, comunque, Dio non lascia soli: veste i progenitori e continua a custodirli.

Solo sentendoci vestiti da Dio, possiamo cogliere la nostra precarietà come strumento per comprendere la direzione del nostro silenzio: oltre il dialogo interiore, talvolta travagliato, esiste quel “fondo” che ci abita ed è Colui che nel silenzio ci ha generati per essere a sua tselem e demut, immagine e somiglianza. Dovrebbe essere una “liberazione”, ma anche la libertà è un cammino, che inizia subito fuori di Eden.

Roberto Bisio